di Mario Narducci
Fosse stata ancora tra noi e se la Cattedrale fosse già stata ricostruita dopo il terremoto del 2009 che distrusse L’Aquila; e se la pandemia non ci avesse costretti tutti in casa, anche al termine di questa Quaresima fatta di città deserte e restrizioni, Bettina l’avremmo incontrata di sicuro là, alle cerimonie in Duomo della Settimana Santa che sfocia nel giubilo pasquale, magari a cantare l’exultet con la corale di Sant’Antonio di cui faceva parte. L’avremmo allora vista in prima fila, piccola e rotondetta, fasciata per l’occasione in un completino nero, i capelli a caschetto, la voce inconfondibile anche nella coralità dei fiati.
Bettina era
come il prezzemolo, l’avresti della onnipresente, ma solo un po’ meno del
Padreterno che è in cielo, in terra e in ogni luogo, mentre Bettina era in ogni luogo soltanto. Se
glielo facevi notare si schermiva con il suo perenne sorriso, mai pieno perché
si portava addosso le pene di una vita che con lei non era stata benigna. In
qualunque Chiesa capitassi per una liturgia particolare, lei era là.
Partecipavi ad un evento istituzionale e la incontravi. Il calendario invitava
da qualche parte a un appuntamento culturale, e la vedevi apparire con la sua
aria che stava al mezzo tra il soddisfatto e lo scusate tanto.
Lei era
come quei fiori dei tigli che stanno nei viali e che a tempo giusto ti
raggiungono con il profumo intenso e gli sbuffi di ovatta che penetrano in ogni
dove, per le narici e fin dentro i vestiti. La gente la chiamava per nome come
una persona di casa, non lesinando attenzioni e confidenze, anche se lei non
aveva mai imparato a scrivere, pur avendo appreso dalla vita a far di conto.
Aveva infatti, la saggezza delle stagioni, e il candore di chi mai si è
prestato, anche se inconsciamente, ai marchingegni astrusi della malizia. Non
sapeva quale fosse e dove fosse il male. Tutto ciò che la circondava e la
toccava era pulito per lei: “omnia munda
mundi” (tutte le cose sono pure per il puro), anche se non sapeva di
latino.
L’autobus gran turismo viaggiava quell’anno, verso la Spagna per una gita organizzata che ci avrebbe condotto dalla Catalogna all’Andalusia. Il rollio del bus fu sovrastato da una voce alta e appena arrochita che si trascinò dietro il coro dei gitanti in un’allegra canzone popolare a doppio senso: “…era lì che voleva volare, l’uccellino della comare”. Non vedevo a chi appartenesse quella voce, che sparse allegria a piene mani, come semente rara. Fino a che apparve lei, che per tutti gli anni che è stata tra noi, sempre dopo la voce giungeva: la voce che era stata il grande dono della sua vita.
Bettina per anni e anni si era portato
dietro un grande dolore, del quale le rimase ombra per sempre: abbandonata dai
genitori appena nata, non seppe mai chi furono anche se non smise mai di
pensarli, cercarli no, che era cosa assai più grande di lei. Cresciuta in un
istituto, se ne affrancò appena possibile, quando trovò occupazione come
lavorante nell’ospedale cittadino. La ricordano ancora, laboriosa, attenta,
servizievole, allegra. Nonostante un aspetto fisico che non le rendeva
giustizia.
“Per anni e anni, confidò un giorno a mia moglie, mi sono chiesta perché: perché i miei genitori mi abbiano abbandonato, perché sono così piccola, sgraziata, perché sono sola, poi ho pensato alle sofferenze di Gesù, e me ne sono fatta una ragione. Mi voglio anche bene come sono, perché mi vedo amata dagli altri per quello che sono”. Un anno prese posto nel mio scompartimento, sul treno bianco che ci portava a Lourdes. Lei andava come volontaria dell’Unitalsi e le maggiori attenzioni le prestava ad altri svantaggiati ospiti di case famiglia, con i quali era pienamente in sintonia perché della stessa innocenza. Quando pregava, davanti alla Grotta di Massabielle, sembrava parlasse davvero con la Vergine apparsa a Bernadette.
A tavola ritornava l’allegra ragazza che era, attenta agli altri e curata nella persona. Vestiva come una bambola, abitini lindi con trine e ricami alle bluse e agli immancabili jeans, se c’era il sole un cappello di paglia, perfino le scarpe, sovente da tennis e dai colori pastello, “sbrilluccicavano” di perline che lei stessa applicava. Procedeva a piccoli passi, con l’andatura a saltelli dei minimi. Profumava di lavanda e di fiori, come la casetta piccola piccola che le era stata assegnata dopo il terremoto e alla quale un giorno l’accompagnai in auto. Viveva da sola. La casa era il suo rifugio, ma la sua vita era fuori, dovunque la portassero gli eventi, tra la gente che l’amava, le gite, nel coro dove a voce spiegata proclamava la sua libertà.
Una brutta
caduta la condusse in ospedale e se la portò via il giorno di Natale, senza
darle il tempo di fare in casa il piccolo presepe e di baciare il Bambino in
Chiesa nella notte Santa. I giornali scrissero che aveva ottant’anni. Ma era
soltanto Bettina.