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Movimento 5 Stelle: “dagli all’untore!” Movimento 5 Stelle: “dagli all’untore!”
La politica di oggi deve confrontarsi con un nemico ambiguo e contraddittorio: il consenso. Oggi più che mai notiamo come sia labile, questa sorta... Movimento 5 Stelle: “dagli all’untore!”

La politica di oggi deve confrontarsi con un nemico ambiguo e contraddittorio: il consenso. Oggi più che mai notiamo come sia labile, questa sorta di forma ansiogena, forse tanto quanto la fragilità di un popolo vittima di un percorso che dal boom economico ha portato ad una decadenza fisiologica, quella della stasi dopo il progresso. Si chiama depressione.

Sono così le epoche, ripetitive, monotone e ingrate e il Movimento si è trovato da un lato a solleticare la rinascita da quella profonda depressione, dall’altro, inevitabilmente, a scontrarsi con una sete insaziabile da parte del popolo, talmente insaziabile che preferisce inseguire facili, immediate e futili chimere. Perché un miraggio è subito, uno slogan pure, per risolvere le cose invece ci vuole tempo, mente e, purtroppo, sangue. Oggi sembra non esserci mai tempo, siamo la società del tutto e subito e non ci rendiamo conto del tempo che serve a risolvere cose immensamente complesse, perché se il Movimento 5 Stelle realizzerà i contenuti che erano nel programma, sono passati soltanto 21 mesi ed è già a buon punto, siamo costretti a chiederci cosa in realtà voglia la gente e soprattutto chi ha fallito davvero se Di Maio o il popolo. Il popolo chiede, il popolo ottiene, il popolo è scontento. La verità è che quasi tutte le persone muoiono senza aver capito molto, e spesso nella comprensione di tale impotenza (quelli intelligenti), si attaccano a tutto, anche a frammenti d’informazioni fraudolente, forse per alimentare l’illusione, in fondo, d’aver capito qualcosa e poter insegnare a qualcuno. Perché in uno stato fondamentalmente depresso la voglia di emergere è spesso disperata e il protagonismo travestito da giustizia vorrebbe conquistare il mondo, ma il mondo non si è mai voluto conquistare davvero perché l’uomo ha bisogno di lottare e non di vincere, perché solamente lottando sopravvive.

Ma torniamo a noi. Perché il pubblico vuole inquadrare le colpe di “Chi”: si vuole sempre immergere il capro espiatorio nel vino e danzare nudi sui tavoli. Il primo errore è stato il concetto di allearsi con chiunque perché la democrazia parlamentare non consentiva vittorie di un’entità politica. Una trappola bella e buona, costruita meticolosamente da chi, sconfitto precedentemente cominciò a tessere la tela che avrebbe incastrato il Movimento: e chi era Penelope? I padroni del paese, i padroni dei giornali e delle televisioni (salvo eccezioni troppo isolate), i padroni della gente… è stato facile. Basta vedere quello che accade nelle piccole città, dove con un Don Rodrigo qualunque vinci ogni elezione malgrado tutto.

Bisognava resistere ad oltranza anche col 33% e pretendere una legge elettorale ragionevole anche a rischio di essere accusati di immobilismo politico (come del resto era capitato pure cinque anni prima col 17%). Bisognava pazientare. E poi la morte di Casaleggio, da annoverare però fra gli errori del fato, che ha consegnato un ideale sano ma un’eredità tecnologica incompleta e senza più “visione”, certamente non interpretata al meglio dalla attuale Piattaforma Rousseau. Ma veramente gravi sono state le rinunce di Beppe Grillo e di Alessandro Di Battista: il primo biodegradabilizzatosi per “comicizzare” nuove mirabolanti avventure, anche se, ultimamente, perdendo leggermente il piglio comico, risultando vagamente pomposo (colpa dell’inquinamento politico che rende seri e noiosi perfino i profeti). E quindi il Movimento si è trovato un po’ come se Gesù Cristo, invece di farsi inchiodare sulla Croce, avesse sparato un altro paio di miracoli e si fosse catapultato alle Maldive, con tanto di Maddalene, Mohiti e orge a randa.

Per Non parlare di Alessandro Di Battista, che avendo capito l’andazzo antropologico, e non potendo fare miracoli, se ne è andato a vagare (quasi) nel deserto, ma senza rinunciare a ciò che serve ad ogni uomo non eroico: moglie, figlio e libro/bancomat. Doveva lavorare dall’esterno, ma di fatto se ne è andato, godendo di una produzione, che senza la pelle di quegli animi che aveva scaldato nelle piazze italiane, non avrebbe venduto nemmeno mezza pagina (e siamo profeti di noi stessi, editorialmente parlando, su questo).

Tutti gli altri errori sono fisiologici ad una mancanza reale di leadership (più che un capo Di Maio, nel bene e nel male è stato un grande coordinatore). Non solo: quando il gregge senza pastore alza la testa non si accorge del dirupo. E se il gregge dovesse travestirsi da lupo verrebbe preso in giro dagli scrupolosi osservatori del bicchiere mezzo vuoto. E così mentre Mosè, dopo aver liberato gli ebrei se ne è salito sul Sinai a prendere le Tavole della Legge, il gregge dopo neanche un paio di giorni era lì alle pendici del Monte che si ubriacava, si ingozzava e idolatrava la qualsiasi. Il gregge è così.

L’unico che ha ragione dunque è Luigi Di Maio: un giovane “incompetente” ed ex venditore di bibite che si è reso protagonista dell’approvazione di leggi rivoluzionarie non per la difficoltà di fare ciò che serviva, ma per il fatto che “esternamente” al Movimento (e a volte “nel”) non si volevano risolvere veramente le cose. E la prova di questo è lo smutandamento italiano nei confronti degli usurai europei in decenni di governi “golosi” e di personaggi arricchitisi con le valute, ma, soprattutto, quando alla fine di una crepuscolare primavera del 1992, la mafia entrò definitivamente a far parte dello Stato.

E Luigi Di Maio e i suoi hanno provato e stanno provando a fermare tutto questo: logicamente andresti a pensare che con questa volontà d’obiettivi avrai già raggiunto quasi il 99% dei consensi. Ma le cose non funzionano così; chissà forse perché andando a favore di vento, la barca, ha paura che il viaggio finisca troppo presto o perché l’oppio dei popoli è sempre stato preferibile alla faticosa e lentissima conquista di un mondo migliore. Del resto dopo tremila anni di storia nessuno ha mai creato l’Eden, malgrado più passi il tempo e più sarebbe ragionevolmente facile. Nessuno c’è riuscito salvo intravederne qualche vago spiraglio grazie a quegli sprazzi di lucidità che derivano dal culmine di ogni assoluta privazione. E la guerra continuerà perché forse solo questo è il vero senso della vita.

Purtroppo la storia ci insegna che sono pochissime le possibilità di cambiare veramente le cose e non sono state mai pacifiche. Ma sul limitare finale di una grande battaglia (la guerra è infinita) l’unico vincitore è Luigi Di Maio che nello sciogliersi la “cravatta di spine” pare abbia sussurrato: “perdonali perché non sanno quello che fanno“.

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