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LE ASIMMETRIE DEL LIBERISMO LE ASIMMETRIE DEL LIBERISMO
di Piero Di Florio – Architetto studioso di Economia Piero Di Florio è un architetto, ma all’indomani della crisi finanziaria sviluppa un interesse verso... LE ASIMMETRIE DEL LIBERISMO

di Piero Di Florio – Architetto studioso di Economia

Piero Di Florio è un architetto, ma all’indomani della crisi finanziaria sviluppa un interesse verso la scienza economica che in poco tempo lo travolge a tal punto da farla diventare una vera e propria passione. Dal 2012 si dedica allo studio dell’economia diventando, qualche anno dopo, un collaboratore volontario del centro studi di Win The Bank fondato dal Professor Valerio Malvezzi, insieme al quale ha scritto diversi articoli. Ama definirsi un partigiano antiliberista, devoto alla scuola keynesiana e post-keynesiana.

L’economia neoclassica (liberista) si basa su assiomi, tra i quali il più importante è l’individualismo metodologico (modello EEG) che considera l’individuo come fulcro della propria analisi (imprenditore, consumatore, ecc.).

A partire dalla seconda metà degli anni ’70, si è affermata nell’economia una sorta di malattia molto perniciosa che è quella delle cosiddette microfondazioni, attraverso cui si è iniziato a negare rilevanza e dignità scientifica a chiunque non si ponesse programmaticamente dal punto di vista dell’individuo nell’analizzare i fatti economici. Si nega, quindi, rilevanza e dignità scientifica a qualsiasi studio ponesse in relazione gli aggregati macroeconomici senza prima raccontare una “storia sull’individuo”.

Il problema di fondo deriva dal fatto che non si hanno i dati di ogni individuo, poiché le motivazioni che spingono ogni singolo individuo a compiere una determinata azione sono le più disparate. Poiché il metodo consente di utilizzare un approccio matematico, questo – secondo gli economisti neoclassici – gli consente di avere valore scientifico.

Il secondo assioma su cui si basa il liberismo è quello della razionalità, postulato che considera ogni individuo razionale, in grado di sapere perfettamente ciò che vuole, ovvero che abbia una funzione obiettivo ben individuata, che sappia massimizzarla, che abbia tutti gli elementi del problema a disposizione, che conosca il futuro e la distribuzione di probabilità di tutti gli eventi futuri, che conosca cioè il cosiddetto modello vero di economia.

Il terzo assioma si basa sul coordinamento delle decisioni individuali. Brutalizzando: dimostrare che se ognuno si fa i “cazzi suoi” si ottiene un esito socialmente ottimale. A sostegno di questa tesi vi è il sistema dei prezzi, determinati dalla scarsità, che nel modello neoclassico ha una funzione di segnalazione che riesce a guidare agenti scoordinati (ognuno dei quali, appunto, si fa i fatti suoi) verso la massimizzazione del valore che può essere estratto dalle risorse disponibili.

Il corollario politico è che il mercato è dotato di potere autoequilibrante, diventando così l’istituzione alla quale affidare le sorti della comunità. Pertanto, la mediazione politica è inutile e lo Stato non è altro che un fastidio. Ecco spiegato perché hanno tutti la fissa per i mercati.

Si evidenziano, così, i paradossi di questo approccio, il primo dei quali è il considerare un mondo formato da individui uniformi. Quindi: tu sei un liberale, esalti la libertà, esalti l’individuo, ma per sostenere la tua narrazione ammetti l’esistenza di mondo distopico formato da individui tutti uguali. Geniale!

Per dimostrare le virtù della libertà e della libera iniziativa, l’individuo è “libero” di volere un’unica cosa: se è consumatore è libero di volere solo la massimizzazione immediata dell’utilità, se invece è imprenditore è libero di volere solo la massimizzazione immediata del profitto.

Peccato che il mondo sia diverso da quello che i liberisti immaginano, poiché la realtà è complessa e non permette sempre una trattazione matematica univoca. Ma, per gli economisti neoclassici, rinunciare alla trattazione matematica lederebbe la loro autostima e, secondo loro, renderebbe il tutto privo di rilevanza scientifica.

Vi è, poi, un altro paradosso che va sotto il nome della doppia deresponsabilizzazione: per molti potrebbe sembrare un’esagerazione, ma al mondo d’oggi se un economista dice una scemenza può generare disastri, anche morti (esempio: vedi FMI -> moltiplicatore Grecia volutamente errato per giustificare austerity devastanti per far rientrare le banche francesi e tedesche -> depressione economica -> aumento suicidi e mortalità infantile, ecc.). Per i più questa cosa non è lampante perché la catena causale è molto lunga e frastagliata, anche per la giurisprudenza non può esserlo, poiché non è così facile determinare un rapporto causa-effetto così cogente.
Tale paradosso può essere definito attraverso due fasi: la prima è quella in cui gli economisti mainstream (neoclassici) presentano l’economia come una scienza naturale, in grado di proporre soluzioni oggettive proprio attraverso quel processo di matematizzazione dell’economia che ha l’obiettivo retorico (di persuasione) di accreditare il discorso economico come un discorso scientifico oggettivo, deresponsabilizzando gli stessi economisti dall’applicazione di una medicina amara ma ineluttabile, mentre in realtà si tratta – come sempre – di scelte politiche di classe.

Nella seconda fase, gli stessi economisti che prima si arroccavano dietro la matematizzazione per dimostrare la natura oggettiva dell’economia, adesso la presentano come una non scienza (o attraverso la più nota espressione “l’economia non è una scienza esatta” – quante volte l’avete sentito dire o addirittura l’avete ripetuto voi stessi?) per poter nascondere i loro fallimenti, una volta conclamati, con la scusa di praticare una scienza non esatta. In altre parole: scusateci, ma gli errori sono inevitabili. I neoclassici preferiscono, quindi, passare per fessi piuttosto che per criminali, e questa è forse è l’unica cosa condivisibile.

La realtà ha dimostrato che il mercato è intrinsecamente fallace nell’allocare le risorse, poiché il comportamento degli agenti economici, seppur razionale, può condurre ad esiti nei quali si manifesta appunto un’allocazione inefficiente delle risorse, ovvero convogliare risorse finanziarie verso un investimento che nel lungo periodo non ha redditività sufficiente. Questo nega l’assioma secondo il quale il sistema dei prezzi indirizza le risorse dove si può creare più valore nel tempo.
Quanto appena enunciato sta alla base del messaggio keynesiano.

Secondo l’insegnamento di Keynes, infatti, il capitalismo è costituito da due mercati che tendono entrambi al fallimento: il mercato del lavoro (principio della domanda effettiva) ed il mercato del risparmio (stato dell’aspettativa a lungo termine).

Il principio della domanda effettiva si basa sul fatto che l’occupazione, sia a livello di impresa che a livello aggregato, dipende dai ricavi che l’imprenditore si aspetta di ricevere per il prodotto posto in essere. Questo significa che il mercato del lavoro non è come il mercato delle patate, dove se il prezzo scende ne compri di più (o, come direbbero gli economisti, dove le curve di domanda sono inclinate negativamente): la domanda di lavoro la esprime l’imprenditore, e nel mainstream neoclassico c’è l’idea che se il salario si abbassa l’imprenditore assume di più. Ma non funziona così: il salario del lavoratore diventa poi il ricavo dell’imprenditore come domanda aggregata (i famosi proceeds), quindi se un imprenditore pagasse di meno i propri lavoratori i suoi ricavi crescerebbero, ma se tutti gli imprenditori facessero la stessa cosa i profitti calerebbero (in gergo si chiama fallacia di composizione). Questo è il motivo per il quale il mercato del lavoro è diverso dagli altri, è un mercato dove cioè il prezzo (il famigerato costo del lavoro), cioè il salario, non ha necessariamente quella virtù riequilibrante.

Per quanto riguarda, invece, il mercato del risparmio, la lezione keynesiana ci insegna che questo è organizzato dal principio della liquidità, ovvero se si fa un investimento (titolo, azione, ecc.) c’è la necessità che questo rimanga liquido, per qualsiasi necessità finanziaria improvvisa. In un mercato organizzato così, a prescindere dall’esperienza o dalle intenzioni dell’investitore, c’è la possibilità che il denaro non venga indirizzato verso gli investimenti più socialmente profittevoli, che hanno cioè il più elevato rendimento a lungo termine. Esempio: non è sensato pagare 50 un investimento del quale credi che il rendimento prospettico giustifichi un valore di 60 se però pensi che fra qualche mese il mercato lo prezzerà a 30. Di converso, ha senso pagare 50 per un investimento che magari fra 10 anni lo vendo a 30, ma che dopodomani potrei venderlo a 70 perché tutti sono convinti che io abbia fatto la cosa giusta, quindi tutti acquistano quell’azione e il suo valore cresce, poi vendo per primo e ne traggo un profitto, fregandomene di quello che succederà a tutti gli altri. E’ un sistema intrinsecamente destabilizzante, descritto con l’espressione esuberanza irrazionale dei mercati da economisti come Shiller e Minsky.

Perché Keynes è stato rinnegato? Perché una teoria economica liberista che si ispirava ad un modello ottocentesco (ricardiano), demolito e sepolto attraverso la seconda guerra mondiale, è tornato nuovamente in auge?
Iniziamo col precisare un aspetto fondamentale: l’economia non è neutra, poiché sposa il pensiero della sezione apicale del blocco sociale dominante, e siccome chi domina è il capitale e non noi poveracci, ed essendo l’economia liberista funzionale agli interessi del capitale a discapito del lavoro…ci siamo capiti.
La controrivoluzione liberista, e la castrazione del pensiero di Keynes, è partita negli anni 50, fra i primi ci fu Samuelson, il quale faceva finta di professarsi keynesiano ma poi sosteneva che Keyens avesse commesso degli errori che quindi dovevano essere corretti.
Come prima ipotesi neoclassica il postulato è che il prezzo è riequilibrante, ma lo si raggiunge solo nel lungo periodo poiché nel breve periodo i prezzi sono rigidi; da questo enunciato nasce il modello che ancora oggi si trova nei manuali di economia (ahinoi!), ovvero il modello di domanda e offerta aggregata che si basa, sostanzialmente, sulla regola che nel breve periodo la domanda conta ma non nel lungo, poiché il livello di produzione ed il benessere di un Paese dipende solo dalla tecnologia e dalla forza lavoro che nel lungo periodo sarà tutta occupata (o magari tutta morta…) e da quanti investimenti sono stati fatti. Questo è il cosiddetto modello della sintesi neoclassica, che in Italia ha avuto come massimo esponente Modigliani, a cui hanno dato anche il Premio Nobel, nonostante avesse bestemmiato il nome di Keynes in tutti i modi possibili.

Una seconda ondata di castrazione del pensiero keynesiano è avvenuta con la nascita del pensiero neokeynesiano(o keynesiano bastardo, come lo chiamavano i postkeynesiani italiani tra cui il Maestro Federico Caffè), il cui postulato è il seguente: il prezzo è equilibrante ma non lo si raggiunge a causa di “fonti di rigidità”, fra cui:
– se i prezzi cambiano occorre aggiornare i listini, ma questo comporta dei costi vivi e allora il prezzo è rigido e non si raggiunge l’equilibrio;
– i contratti sono scaglionati nel tempo e se le condizioni variano possono rappresentare un elemento di rigidità;
– salario di efficienza: il lavoratore non ha voglia di lavorare, quindi il datore lo controlla affrontando dei costi di monitoraggio o pagandolo di più per motivarlo (ma se tutti fanno così il salario erogato sarà superiore a quello di equilibrio, e anche se il lavoratore lavora senza problemi c’è qualcun altro che rimane fuori dal mercato – nei modelli neoclassici c’è sempre la parabola basata sull’odio sociale che “chi sta dentro è privilegiato”);
– ecc..

Per gli autori neokeynesiani, il modello non perturbato dalle anomalie citate poc’anzi rimane quello walrasiano, governato dalla legge di Say: se il prezzo riporta i mercati in equilibrio, non ci può essere eccesso di produzione. La sintesi è che per risolvere i problemi di crescita si interviene dal lato dell’offerta, cioè per diventare più ricchi bisogna produrre di più, senza preoccuparsi minimamente di dove andrà a finire quella produzione, dal momento che uno degli assunti cardine del liberismo è che la domanda è rilevante ma solo nel breve periodo.

Fortunatamente, esistono anche gli economisti post-keynesiani che ripartono dagli insegnamenti di Keynes, credono anch’essi nei fallimenti del mercato e la loro intuizione sta nella rilevanza della composizione settoriale dell’economia (N. Kaldor). Grande rilevanza è data al settore industriale ed ai contesti istituzionali/politici, ma soprattutto alla domanda sia nel settore reale nel lungo periodo che in quello finanziario (Thirlwall). Il livello di domanda è rilevante nel lungo periodo perché influisce sulla produttività e quindi sulla crescita di lungo periodo, questo perché l’imprenditore è stimolato a produrre di più se ha un mercato di sbocco. L’esempio classico è quello smithiano, cioè del produttore di chiodi su un’isola sperduta, che senza mercati di sbocco non avrebbe alcun incentivo ad essere più produttivo, altrimenti i chiodi alla fine dovrà mangiarseli. Al contrario, se avesse un mercato di sbocco, quindi ulteriore domanda, adotterebbe metodi più produttivi perché, banalmente, converrebbe farlo. Pertanto, la divisione del lavoro (innovazione di processo) dipende dalla dimensione del mercato (Smith).
Il pensiero neoclassico, invece, prescinde totalmente dall’importanza della domanda nel lungo periodo, al massimo si concede che qualche politica attiva da parte del governo possa avere rilevanza nel breve periodo. Peraltro, il cosiddetto lungo periodo è una pura astrazione, dato che la dimensione operativa sia dell’imprenditore che della politica è fatalmente di breve periodo.

Gli economisti liberisti che nel dibattito pubblico invocano perennemente le famigerate “riforme” del mercato del lavoro (taglio dei salari), sono gli stessi che poi, in letteratura e negli articoli scientifici, ammettono candidamente che in un sistema che scarica sui salari gli aggiustamenti macroeconomici (l’euro), il lavoro costa poco, troppo poco, perché ovviamente l’imprenditore preferisce utilizzare tecniche ad alta intensità di lavoro anziché tecniche ad alta intensità di capitale, quindi invece che fare investimenti produttivi utilizza semplicemente più manodopera con tecnologie inferiori perché più conveniente. Il basso salario, pertanto, produce una distorsione allocativa che influisce negativamente sulla produttività, cronicizzando il problema già presente nei paesi “deboli”.

Il neoliberismo si può, quindi, definire come il progetto di gestione delle altre scienze sociali con l’approccio quantitativo matematizzato dell’economia neoclassica. Questo è un fatto ed esiste specie nelle scienze politiche, dove viene utilizzato il calcolo economico per spiegare scelte politiche, come ad esempio la cosiddetta “teoria del ciclo politico-economico”, secondo cui la strutturazione del discorso politico è relegata unicamente alla funzione obiettivo del politico che è quella di essere rieletto, per cui egli gestirà l’economia massimizzando la sua funzione obiettivo. Plausibile, ma in termini formali la politica non riguarda più la gestione dei rapporti di classe ma unicamente la funzione di utilità del politico. Si ha quindi una scienza politica che scimmiotta l’economia o, se vogliamo, un’economia che dispiega la sua egemonia culturale sulle altre scienze sociali, proponendosi come unico paradigma valido di scienza sociale perché è matematica e, in quanto tale, scienza.

Secondo la teoria “classica”, è noto che per fare in modo che paesi diversi adottino la stessa moneta è necessario che prezzi e salari siano flessibili. Purtroppo, al di là del valore positivo che evoca, la flessibilità è intesa sempre a ribasso, è inevitabilmente asimmetrica. Ma questo è così per un motivo strutturale, logico: non esiste un capitalista che sia contento di alzare i salari. Una volta a sinistra il tema della lotta di classe rappresentava il fondamento della propria funzione politica, oggi invece sentiamo ripetere idiozie del tipo “l’euro è solo una moneta”, cioè a sinistra non sanno più che la moneta è un’istituzione che regola rapporti di forze (classe). Delle due l’una: ignoranza o tradimento.
Chi ha bisogno di essere flessibile? Banalmente, in una unione monetaria, il paese debole che non può agire sulla leva del cambio in seguito ad uno shock asimmetrico ha solo la possibilità di intervenire attraverso la cosiddetta svalutazione interna, taglio dei salari appunto. Ma questo non lo scopriamo oggi, lo diceva perfino Milton Friedman nel 1953 che, per chi non lo conoscesse, rappresenta il belzebù dell’economia, il massimo esponente del pensiero neoclassico negli USA (The Chicago Boys, Mont Pelerin Society, ecc.).

Un altro aspetto ben noto già dai primi anni ’60 è la mobilità interregionale dei fattori, vale a dire la facilità di spostamento del lavoratore, ma la “bellissima” mobilità del lavoro (anche interstatale) che c’è in America, qui in Europa è assai complicata a causa delle numerose barriere culturali presenti fra le varie nazioni (problema della lingua in primis). Stati Uniti d’Europa? Certo, peccato che stavolta gli indiani siamo noi. Alla base di tutto vi è la fallacia metodologica del pensiero neoclassico che considera la forza lavoro come un bene totalmente omogeneo, totalmente fungibile, che a sua volta si basa sull’assunto cardine del modello liberista che non ammette fallimenti del mercato e che tutti sono occupati, con la logica che se fino a ieri eri un metalmeccanico addetto alle presse domani ti metterai a costruire clarinetti o a dipingere quadri, ma l’aspetto più surreale è che questo avviene quasi istantaneamente perché il modello deve essere sempre in equilibrio. Nei fatti tutto questo non esiste.

Un terzo aspetto della teoria classica, sollevato da McKinnon, è l’elevata apertura dell’economia, vale a dire se la quantità di esportazioni ed importazioni sul totale del prodotto è molto elevata (cioè se il paese commercia molto, soprattutto se importa molto) può convenire l’adozione di una moneta unica. Secondo questo criterio, gli adeguamenti dei prezzi relativi dovrebbero essere più piccoli nelle economie molto aperte, ed inoltre una maggior quantità di transazioni dovrebbe aumentare i benefici legati ad una valuta comune. Così non è stato.

In presenza di una unione monetaria, è necessaria l’integrazione fiscale, in particolare per i paesi economicamente più depressi, affinché questi possano essere compensati attraverso un meccanismo federale di ridistribuzione della raccolta fiscale fra i paesi, che permette a quelli in difficoltà di avere qualche beneficio in più dal nucleo centrale. Abbiamo visto tutti quanta voglia c’è soprattutto da parte dei paesi “core” (Germania, Olanda, Austria, ecc.) di condividere e mutualizzare perdite, debiti, ecc. Ne cito solo due: la mancata realizzazione del terzo pilastro dell’Unione Bancaria Europea (garanzia europea sui depositi) e, proprio mentre finisco di scrivere questi appunti, il mancato accordo sui famigerati “coronabonds”.

Una delle più grandi contraddizioni del pensiero neoclassico appare in tutta la sua evidenza leggendo quanto afferma Kenen (1969), sempre sulla base della logica di “riduzione del danno”, che si presenta nel momento in cui rinunci alla leva del cambio per regolare i rapporti con l’estero. La riduzione del danno, quindi, si ha se vi è un elevato grado di diversificazione produttiva, secondo cui se un paese ha un’economia diversificata al punto tale da avere sempre qualcosa da vendere all’estero, il paese è meno soggetto ai cosiddetti shock idiosincratici, ovvero shock che colpiscono un singolo mercato. Tutto questo contrasta fortemente con la retorica neoclassica secondo la quale, invece, il commercio serve a “sfruttare i vantaggi comparati”, una retorica che ritiene giusto che ogni nazione si specializzi in ciò che sa fare meglio, in modo che il bene prodotto nel paese che ha il vantaggio comparato costerà comparativamente di meno sia ai lavoratori del paese produttore che a quelli di un altro paese e questo determinerà un aumento di benessere poiché, a parità di reddito, ci sarà la possibilità di scambiare più beni. Questo, in sostanza, è il criterio che sta alla base del pensiero liberoscambista, ricardiano, neoclassico. La tesi è che l’integrazione finanziaria (la moneta unica), permettendo una migliore circolazione del capitale, indirizzi quest’ultimo a sfruttare i cosiddetti vantaggi comparati.
Ricapitolando: abbiamo un sistema europeo che, per essere meno fragile rispetto agli shock esterni provenienti dal resto del mondo, deve necessariamente prevedere che i paesi abbiano economie diversificate, ma al tempo stesso si dota di un’istituzione (la moneta unica) che facilita lo spostamento del capitale che a sua volta tenderà a far specializzare i paesi nelle attività per le quali hanno un vantaggio comparato. Un immenso cortocircuito.

Finora sono state elencate solo questioni tecniche, ma mancano quelle più importanti: le questioni politiche. Perché è stata fatta una moneta senza Stato? Perché non si è fatta prima l’unione politica di quella monetaria, come peraltro suggeriva Nicholas Kaldor nel lontano 1971? Per una ragione molto semplice: per fare gli Stati Uniti d’Europa bisogna distruggere la civiltà europea, i popoli europei, la loro storia, le loro culture e tradizioni. Poi si reimpianta una nuova monocultura, monolinguistica, eliminando tutte quelle barriere culturali che rendono, di fatto, il “sogno” europeo un progetto antistorico.


Buona sovranità a tutti!
PIERO DI FLORIO