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La retorica di Macron: un caso di scuola di manipolazione linguistica La retorica di Macron: un caso di scuola di manipolazione linguistica
Lino Castex Di seguito riportiamo un pezzo recente, ripreso dal Politis che si definisce “l’unico settimanale generalista indipendente al 100% in Francia”, in cui... La retorica di Macron: un caso di scuola di manipolazione linguistica

Lino Castex

Di seguito riportiamo un pezzo recente, ripreso dal Politis che si definisce “l’unico settimanale generalista indipendente al 100% in Francia”, in cui si analizza la modalità comunicativa del Presidente francese nei confronti dei francesi manifestanti, contrari alla riforma delle pensioni da lui imposta.

Ci sembra un articolo importante per capire, più in generale, in che modo la comunicazione viene utilizzata dal Potere per condizionare e manipolare il cittadino (NdT).

La lingua è senza dubbio il primo degli strumenti della politica. Rispetto a chi ascolta, o a chi legge, la scelta di un pronome personale, di un singolare piuttosto che di un plurale, di una lettera maiuscola, di una virgola produce un movimento, un’intenzione, una risonanza. Il linguaggio diretto è probabilmente quello che produce più azione.

È performativo. Nomina un mondo, agenti, luoghi di apparizione, identità. Insomma, è uno strumento politico formidabile per chi lo sa usare. Quando il presidente dichiara che “la rivolta, la folla, non hanno legittimità di fronte al popolo che si esprime attraverso i suoi rappresentanti eletti”, usa abilmente il veicolo lessicale politico. E in questo si inserisce in una nota abitudine storica della denigrazione democratica: l’opposizione fra il concetto di popolo e quello di folla. È il demos e il plêthos di Platone, è anche l’ordine del popolo trattenuto e il pericolo della massa instabile in Machiavelli. Da una parte la legittimità politica del popolo, ordine e moderazione, dall’altra il disordine, l’animale, il basso ventre. La ragione da una parte, l’appetito dall’altra. Retorica consumata, questa retorica, per quanto logora, resta particolarmente efficace nello squalificare un movimento che viene così immediatamente rimandato a uno stadio prepolitico o apolitico. Perché ascoltare un movimento che sarebbe, se non l’espressione di un’irragionevole bestialità, al massimo embrione di una comunità politica inconsistente?

Questo è l’espediente retorico.

Ma è solo una semplificazione, da cui non bisogna lasciarsi sedurre. Altrimenti come interpretare gli eventi più significativi della nostra storia politica? In questa dicotomia, dove collocare la Rivoluzione del 1789, la Comune, il 1936?

E ancora oggi. Cosa c’è di bestiale nelle recenti espressioni politiche? Incendi spazzatura? Cosa c’è di illegittimo nelle manifestazioni spontanee? La loro spontaneità? E ancora più assurdo, cosa c’è di apolitico in queste richieste? Se dobbiamo credere alla psicologia delle masse di Gustave Lebon: la folla è caratterizzata dall’anonimato, dal contagio, dalla scomparsa della coscienza fino all’ipnosi. E soprattutto è un essere provvisorio i cui membri sono molto eterogenei e presi da un’improvvisa consapevolezza del loro essere in comune che annulla ogni riflessività. Vediamo quindi l’obiettivo di Macron quando oppone al “popolo che si esprime attraverso i suoi funzionari eletti” la “rivolta, alla folla”.

Il suo obiettivo è annullare la sostanza politica della protesta, additandone l’indisciplina e accostandola al comportamento di un gregge di pecore. Ma, una volta detto che i movimenti sociali degli ultimi mesi sfuggono a un simile paragone, è difficile vedere cosa distingue la folla, che essa designa, dalle persone che si esprimono negli eletti. O dobbiamo capire che le persone sono persone solo quando si esprimono attraverso i loro rappresentanti eletti e che al di fuori di questa rappresentazione sono solo folle?

Perché questo corpo che protesta dovrebbe essere solo una folla? In nome di cosa il presidente squalifica questi movimenti da qualsiasi identità politica?

Il gioco linguistico del presidente è pericoloso perché cerca di “confinare” le persone per poter parlare meglio al loro posto. Mentre la pratica democratica consiste proprio nel rimodellare luoghi e funzioni, nel produrre identità in movimento e non ancora definite.

Questa folla, che non ha nulla di incontrollabile e di apolitico, costituisce un corpo politico, consapevole di essere un popolo. Con “folla” il presidente pensa “straripamento” , ma l’esercizio democratico consiste proprio nello straripamento, nella conquista dei posti a cui non si è ancora stati assegnati. E questa folla, che non ha nulla di incontrollabile e di apolitico, costituisce appunto un corpo politico, consapevole di essere un popolo, che non vuole essere portato dove il Potere vuole. Questa indisciplina non è certo una confondersi della gente in una folla ipnotica, ma una partecipizione della gente che non si riconosce nella disciplina loro imposta, che è peraltro una disciplina che tocca la vita stessa nella questione del lavoro.

Non è perché la vita politica francese è polarizzata intorno alle elezioni presidenziali e al lavoro parlamentare che ciò che si esprime al di fuori di questo quadro dovrebbe essere squalificato, in “rivolta, alla folla”.

Il populus, il vulgus e il popolo. Questo è già quanto esprimeva con gusto il grande Mirabeau repubblicano, che vedeva nell’ambiguità della parola popolo la complessità dell’espressione democratica. C’è sempre un equilibrio più o meno definito tra il populus , popolo nella sua forma genealogica, il vulgus popolo nella sua forma parziale, sociale e infine il popolo nella sua forma civile, politica, il popolo.

Mirabeau, citato da Michelet (1), così disse: «Si pensò di oppormi al più terribile dilemma dicendomi che la parola popolo significa necessariamente o troppo o troppo poco, che se è spiegata nello stesso senso del latino populus , significa nazione…, che si intende in senso più ristretto come il latino plebs, quindi presuppone ordini, differenze di ordine ed è quello che si vuole impedire. Arrivammo persino a temere che questa parola significasse ciò che i latini chiamavano vulgus, ciò che gli aristocratici sia nobili che popolani chiamano insolentemente marmaglia. A questo argomento ho solo questo da rispondere. È perché è infinitamente fortunato che la nostra lingua nella sua sterilità ci abbia fornito una parola che le altre non avrebbero dato nella loro abbondanza».

La nozione di popolo fa parte di questa “triplice opposizione” (2).

Escludere le espressioni politiche degli ultimi giorni dall’essere espressione del popolo riflette una strategia comunicativa di separazione che volutamente ignora l’intensa complessità del popolo. Togliere la sua dimensione partitiva, sociale, politica e di protesta è cercare di contenerne la forza. Tanto più che questa negazione del popolo è storicamente indicativa di disprezzo di classe. Il popolo a cui si sottrae il fatto di essere popolo è il “popolo basso”, il popolo, la turba, il vulgus, la plebe. Perché questo popolo è una frazione della comunità politica che esprime, se non ostilità, almeno protesta nei confronti delle classi dominanti e dello stesso governo. Ma se nell’ancien régime era consuetudine vedere in questo corpo politico una mostruosa massa informe, l’operazione repubblicana che si esprime nelle parole di Mirabeau si fonda sulla volontà di tenere insieme la “triplice opposizione”. E ancora di più, la società democratica è quella che riesce a coniugare questa partizione ma anche a cambiare misura, ad elaborare luoghi e identità che sfuggono alla partizione consueta. Della marginalità, dell’alterità. Forme spontanee inedite. A volte incomprensibile. È l’opposto del discorso di chi cerca di fissare il popolo in una di queste definizioni.

La democrazia presuppone questa possibilità di straripamento.

Dal punto di vista politico, non ha importanza se è un movimento sia folla o popolo. E togliere a chi va oltre la semplice espressione “tramite i suoi eletti” la qualità di persona pensante è un’immensa brutalità. Dire questo è il popolo, questa è la folla, suppone una riduzione a un aspetto del popolo che ne esclude un altro. Macron esclude chi manifesta, chi si oppone, chi esprime la propria sofferenza e la propria paura di fronte alla riforma. Non dobbiamo sprofondare in nessuna impasse: né eroismo né negazione. Ma bisogna capire che la politica democratica è inseparabile da questo straripamento

Jacques Rancière nel 2017 in un’intervista alla rivista Ballast diceva proprio che la politica contrasta le categorie come folla o popolo: «C’è politica nella misura in cui c’è manifestazione di questa eccedenza: quando, per esempio, un popolo di strada che si oppone al popolo gestito da governo, parlamento e sindaco istituzioni; quando le persone si radunano sulla Puerta del Sol, a Madrid, per dire agli altri che non li rappresentano; quando un popolo (…) si trova in tensione con quest’ultimo».

Se c’è una via d’uscita dalla crisi politica che stiamo attraversando, è probabilmente quello di trasformarla in un momento di rottura, di delegittimazione dei poteri pubblici e del loro esercizio. E quanto più le diverse posizioni saranno contraddittorie, tanto più si nutrirà il dibattito democratico.

Quindi non solo non ci sono persone “basse” da privare della loro qualità politica, ma, come popolo, l’attuale espressione di protesta non ha meno legittimità – poiché è la legittimità che si tratta – che il popolo nella sua forma civile e storica.

Grazie a Maria Cristina Ariano che ha per prima pubblicato il testo in lingua italiana. Revisione e adattamento di Fabrizio Zani

NOTE

1) Jules Michelet, Storia della rivoluzione francese , 1853.2) Jean-François Kervégan, Dizionario di filosofia politica, “popolo”, 1996, PUF, p. 542Di seguito il link all’articolo postato, in lingua originale: https://www.politis.fr/…/la-dangereuse-rhetorique…/TRIBUNA ‘Il “gioco” linguistico del presidente è dannoso perché cerca di confinare le persone per poter parlare meglio al loro posto.’ Lino Castex, 23 marzo 2023