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“Uno sguardo dal ponte” Battiato-Pio e la musica d’avanguardia italiana “Uno sguardo dal ponte” Battiato-Pio e la musica d’avanguardia italiana
Stefano Pio https://www.facebook.com/stefano.pio.334 La vita e la produzione musicale di Franco Battiato è stata studiata, analizzata e rivoltata come un calzino, tuttavia esistono ancora,... “Uno sguardo dal ponte” Battiato-Pio e la musica d’avanguardia italiana

Stefano Pio

https://www.facebook.com/stefano.pio.334

La vita e la produzione musicale di Franco Battiato è stata studiata, analizzata e rivoltata come un calzino, tuttavia esistono ancora, a mio avviso, punti che dovrebbero essere maggiormente chiariti al fine di meglio comprendere la portata e l’ apporto della sua produzione musicale con riferimento alla cosiddetta “musica d’avanguardia o contemporanea”.

Per fare questo, è necessario ricostruire per sommi capi il clima musicale avanguardistico nell’ambiente musicale milanese in cui Franco e mio padre si trovarono ad operare negli anni ’70 ed ’80. Franco proveniva dalla sperimentazione elettronica, mio padre invece dall’ esperienza classica ma si compenetrarono velocemente , ciascuno recependo e trasmettendo all’altro la propria esperienza ed idea creativa. Quanto sto per dire non piacerà forse ad alcuni cultori dell’ avanguardia musicale di quegli anni (sicuramente fra di essi il mio caro amico Guido Boselli che ricordo come un entusiasta esecutore di questo tipo di musica) ma spero non me ne vogliano più di tanto. L’ avanguardia musicale italiana era in quegli anni dominata da un gruppo di intellettuali- compositori il cui repertorio veniva puntualmente proposto (dai direttori artistici) nei programmi delle stagioni lirico-sinfoniche che caratterizzavano l’offerta musicale nel campo della musica classica. I nomi più ricorrenti erano quelli di Bussotti, Berio, Sciarrino, Donatoni, Nono, Sinopoli, Corgi, i loro allievi ed altri ancora. Gran parte di questa produzione musicale avanguardistica (non tutta) , solitamente cacofonica, era accomunata da una precisa caratteristica : quella di non piacere né al pubblico di sala a cui era destinata, né ai musicisti delle orchestre o gruppi cameristici chiamati ad eseguirla. La questione è particolarmente rilevante, posto che i compositori nei secoli scorsi si sono sempre confrontati con la necessità di mediare le proprie idee musicali al fine di assecondare/incontrare, a seconda dei casi, il favore del proprio committente (xviii secolo e precedenti ) o del pubblico pagante (dal xix secolo in avanti). Mi si obietterà, giustamente, come la musica, soprattutto se avanguardistica, non debba più dal xx secolo sottostare al semplicistico postulato di sempre e soltanto piacere, non vi sarebbe stata altrimenti quella continua evoluzione che, a differenza di altre culture musicali extraeuropee rimaste immutate nei secoli (si pensi ai raga indiani), ha caratterizzato la storia della nostra musica “occidentale” europea. Talvolta la musica (come del resto ogni manifestazione artistica) può assumere un valore provocatorio, di rottura degli schemi del passato, di disagio, denuncia eccetera, tuttavia l’impressione di mio padre e di Franco, esternata nelle frequenti discussioni a cui talvolta partecipavo (essendo a mia volta musicista) era che, fra questa generazione di compositori, si usassero spesso come alibi le sopradette motivazioni culturali per giustificare la pubblicazione di composizioni brutte, noiose, cacofoniche, che non piacevano e che ormai, a furia di ripetizione, erano diventate espressione di una “retroguardia” piuttosto che di una “avanguardia” (non si può fare di tutte le erbe un fascio, c’ erano anche perle di Berio, Chailly, Nono…). Questo tipo di musica è stato spesso riproposto acriticamente dai direttori artistici dei nostri teatri e sale di concerto per 40 anni (1970-2010) , in questo supportati da una certa critica che definirei “di regime” visto che l’appartenenza ideologica di tutti, direttori artistici, critici musicali e compositori, era riconducibile ad un preciso credo politico-culturale. Questa gruppo assunse così il ruolo di avanguardia “dominante”, anche se alcuni (penso ai neo romantici) cercarono successivamente di variare lo stato delle cose così consolidatosi, peraltro con risultati solo marginali. Vi erano poi circuiti alternativi molto vitali ma tutti accomunati dall’impossibilità di far conoscere al grande pubblico (quello delle sale di concerto e delle grandi case editrici) la propria produzione. Chi non apparteneva (artisticamente parlando) al credo del gruppo culturale egemone veniva irrimediabilmente scartato o messo al margine, mentre chi vi apparteneva poteva contare su un apparato di sostegno e su ingenti risorse pubbliche, cito a titolo d esempio Luigi Nono per il quale furono spesi 900 milioni di lire (cifra stratosferica negli anni 70) per l allestimento della sua opera “Al gran sole carico d amore” al Teatro Lirico di Milano, se ben mi ricordo. .Le scelte non erano dunque basate unicamente su criteri meritocratici ma bensì contava l’appartenenza “al gruppo” e la condivisione della sua ideologia. L’avanguardia musicale di altri paesi era pure parzialmente proposta nelle sale di concerto italiane: si sentivano ovviamente compositori del calibro di Ligeti, Bernstein, Pendercki, Copland etc. ma erano pressoché sconosciuti compositori come Alvo Part, Steve Raich o Philip Glass Ia cui opera conobbi dai dischi che Battiato ci portava a casa e non certo nelle sale di concerto milanesi dove sia io che mio padre lavoravamo. Nessuna possibilità di emergere sulla base del proprio talento sarebbe stata dunque possibile per Franco in un simile contesto: egli era lontano anni luce sia da questo particolare tipo di produzione musicale sia ideologicamente dai suoi membri che, rinchiusisi nella propria torre d’avorio , si erano allontanati irrimediabilmente dal pubblico a cui teoricamente volevano rivolgersi, ostaggi del proprio sterile intellettualismo. A proposito del “clima culturale” che si respirava in quegli anni negli ambienti musicali istituzionali, desidero raccontare due aneddoti emblematici, il primo riferito a un fatto successo nell’ambito di una stagione sinfonica dell’Orchestra della RAI di Milano dove mio padre lavorava in quegli anni, il secondo invece al Teatro La Fenice dove lavoravo io (ne avrei a decine da raccontare). I concerti sinfonici della RAI di Milano erano spesso programmati, per scelta del direttore artistico, un esimio appartenente della suddetta lobby artistico-culturale, con brani di compositori del repertorio classico (Beethoven, Mozart, Tchakovsky etc.) proposti nella prima parte del concerto seguiti poi, nella seconda parte dopo l’intervallo, da brani dei soliti compositori contemporanei italiani. Bene, la gente aveva preso l’abitudine di ascoltare la prima parte del concerto e all’intervallo se ne andava a casa, risparmiandosi il fastidio di ascoltare la seconda parte, quella dedicata alla musica contemporanea. Il direttore artistico, per ovviare al problema “di immagine” della sala semivuota, pensò bene di invertire l’ordine del programma senza però modificare le locandine di sala, così il pubblico si beccò più volte a sorpresa i brani avanguardistici previsti nella seconda parte del concerto… scoppiò una rivoluzione in sala con polemiche la cui eco arrivò anche ai giornali ! A Venezia ricordo invece una prova generale con l’esecuzione di brani musicali di diversi giovani compositori emergenti, tutti comunque aderenti allo stile dominante compositivo di quegli anni: i compositori erano tutti seduti in platea ad ascoltare ed alla fine del proprio brano ciascuno di essi si alzava per dare le proprie indicazioni relative all’esecuzione della sua composizione. Si alzò dunque a parlare un compositore ma venne interrotto dal direttore d’orchestra perché… Il brano che stava commentando non era il suo!! Tornando a Franco, assetato di sperimentazione (basta ascoltare Fetus e Pollution), egli si recò nella Germania di Stockhausen dove il suo talento fu riconosciuto e premiato. Tornato in Italia, Franco scrisse insieme a mio padre alcuni dischi sperimentali fra cui ricordo “l Egitto prima delle Sabbie”, “Juke box”, “Cafe Table Musik”, “Rappel” e “Motore Immobile” (firmati ora da uno ora dall’altro, ma in sostanza sempre frutto della loro costante collaborazione) ma ben presto passarono oltre, avendo realizzato la propria estraneità ideologica ai circoli musicali avanguardistici di quegli anni e nel contempo avendo raggiunto la consapevolezza che la propria sperimentazione non potesse esulare dalla ricerca del suono (dunque in antitesi alla cacofonia dominante) e dal favore/interesse del pubblico al quale era indirizzata : a loro giudizio l’ avanguardia si era troppo allontanata dagli ascoltatori, autorelegandosi in un intellettualismo formale che nulla più aveva a che fare con l’essenza del suono e della musica stessa. Sinopoli parlava (1974) di un: “ribaltamento del razionale condotto alle sue soglie più liminari, nell’irrazionalismo più privato e pericoloso…. Questo ribaltamento del quietismo sperimentalistico attuato con le sue stesse armi ha lo scopo dichiarato di riportare a galla tutte quelle contraddizioni dell’Io che l’ottimismo avanguardistico sembra accantonare”…. .

Considerando poi il risultato musicale che di fatto emanava e si concretizzava da simili teorizzazioni , appare oggettivamente incontestabile concludere che l’allontanamento dalla platea e dal mondo del suono a favore di uno sterile intellettualismo cerebrale, capace in realtà di produrre solo noia cacofonica, si era già di fatto consumato. Per Franco e mio padre non era certo questo il tipo di linguaggio a cui dover ricorrere per far arrivare i contenuti della propria sperimentazione al cuore dell’ ascoltatore. Fu dunque questo il motivo per cui Franco e mio padre decisero di cambiare direzione ed iniziarono a scrivere dischi come “L’ era del cinghiale bianco” in cui gli elementi della propria ricerca avanguardistica sul suono si mescolassero semplicisticamente alla forma tipica della canzone popolare italiana, arrivando così ad un risultato che fosse accettabile al pubblico. Molte delle sonorità di sottofondo nei loro successivi dischi, con quei tappeti di suoni lunghi il cui inizio non è rilevabile, talvolta acusticamente appena percepibili benché invece parte sostanziale del brano, sono il frutto dalla loro precedente sperimentazione, che fu focalizzata nella ricerca dell’immagine del suono primordiale o vibrazione cosmica, come teorizzato nei testi sacri (il Verbum nel Vangelo o la vibrazione cosmica nel Vedanta espressa con la sillaba AUM da cui emana tutto il creato). Parlo di ” immagine”, posto che il suono nel creato manifesto non può che solo metaforicamente avvicinarsi alla trascendentale vibrazione cosmica da cui esso emana (Spanda, concetto induista). Dunque in questo loro particolare ed inusuale approccio, volto ad eliminare le barriere fra musica “seria” e leggera, riavvicinando per quanto possibile i due campi, risiede la particolarità del loro lavoro ed il posto che si sono a pieno titolo meritati nella musica italiana. Acquisita una certa popolarità, si aprì inaspettatamente per Franco una nuova possibilità nell’ambito del movimento avanguardistico italiano dominante: vi fu da parte della Ricordi la commissione per un’opera, Genesi , che fu poi eseguita nel Teatro Regio di Parma… forse quest’offerta era da interpretarsi come un segnale di apertura e cambiamento nell’ormai agonizzante avanguardia istituzionale? Franco accompagnò dunque l’uscita di Genesi (in cui collaborò a mani piene anche mio padre sebbene non risulti esternamente) con un suo pamphlet intitolato “Uno sguardo dal ponte”: si trattava del suo manifesto ideologico in cui riportava la propria critica a quel tipo di avanguardia musicale che riteneva superata, quella che ho descritto per sommi capi poc’anzi. In questo scritto, un’analisi un po’ impietosa dello stato dell’arte, Franco diceva che l’avanguardia musicale non si poteva fare con uno spazzolino da denti sfregato sulle corde del violino (allusione a Sciarrino) e nemmeno, aggiungeva mio padre, rincarando da dietro le quinte, creando un’opera per singolo ascoltatore a spese dello Stato (allusione a Bussotti). Il pamphlet non risultò ovviamente gradito all’intellighenzia musicale dell’epoca ed il risultato fu quello che la Ricordi decise di non sostenere più attivamente la diffusione della sua opera: erano previste recite anche a New York che furono poi annullate. Da quanto sopra detto penso si possa capire perché nel testo di “Up patriot to arms” (un invito alla rivolta intellettuale contro questo stato di cose) vi siano passaggi del testo che dicono : “la musica contemporanea mi butta giù” ed “i direttori artistici mandiamoli in pensione”. Con l’affermarsi della sua popolarità e la conseguente liberazione dalle necessità economiche, sia Franco che mio padre furono liberi di tornare a piacimento al loro primo amore, la sperimentazione, creando brani e composizioni con elementi sempre più evidenti e tipici della propria ricerca avanguardistica, ma con un risultato che è piaciuto a tantissimi se non a tutti. Forse non tutti sanno che ancora oggi, nel campo dei diritti editoriali distribuiti dalla SIAE, sussiste una differenza fra musica “seria” (si, è proprio classificata così) e musica “leggera”: alla prima appartengono tutte le composizioni dei succitati autori contemporanei degli anni 70 che percepiscono, per l’appartenenza a questa categoria, diritti “maggiorati”, mentre l’ altra musica, quella “non seria” o leggera (ma mi chiedo, brani come il Capitano Shakelton di Franco non sono forse avanguardistici?) viene attribuita una quota autoriale minore perché non gode di tutela pari alla musica seria o avanguardistica….. Ci vorranno ancora anni , ma sono convinto che alla fine il Tempo farà giustizia di queste cose ristabilendo una giusta graduatoria di valore… ” non cambierà… forse cambierà… si cambierà” .