Di Daniela Musini
Quando morì, il 23 Agosto 1926, aveva appena 31 anni.
Solo cinque anni era durata la sua carriera, fulminante come la sua morte, ma
erano bastati a far sì che questo perito agrario nato a Castellaneta in
provincia di Taranto il 6 Maggio 1895, diventasse il primo Divo della Storia
del Cinema, capace di scatenare entusiasmi deliranti, passioni sbrigliate,
pettegolezzi feroci e il primo, idolatrico culto della personalità dello
star-system hollywoodiano.
Rodolfo Anselmo Raffaello Pierre Filiberto Guglielmi era nato in
una famiglia della buona borghesia pugliese: padre ex ufficiale di cavalleria e
madre dama di compagnia della Marchesa Giovinazzi.
Da ragazzo sognava l’Accademia Navale e quando fu scartato alla visita di leva
per insufficienza toracica, annotò sul suo diario: «Voglio morire».
Ma non si uccise: amava troppo godersi la vita.
Dopo essere approdato a Parigi e a Montecarlo, decise di partire per l’America
e il 29 Dicembre 1913 sbarcò dal piroscafo Cleveland a New York dopo 20 giorni
di navigazione.
Vita dura all’inizio, anzi durissima: sguattero, spazzino, giardiniere. Si
lavava nelle fontane e si asciugava con i fogli di giornale che il vento faceva
volitare a Central Park.
Ma aveva tre doti spiccate: era bello, ambizioso e sapeva ballare da dio. Il
tango, soprattutto, quel ballo torbido e peccaminoso nato nei bordelli di
Buenos Aires e Montevideo, ballato inizialmente solo da uomini, danza di sangue
e di coltelli, di occhiate assassine e di amori perduti, di passione e nostalgia.
Un locale di New York lo scrittura come “danseur mondain” ossia come
accompagnatore di donne sole e lui le fa sognare stringendole a sé in tanghi
voluttuosi e incendiandole con i suoi celebri sguardi obliqui. Danseur
mondain e all’occorrenza gigolo, così non scontenta nessuna.
Ma lui aspirava ad altro: al Cinema, per esempio.
Volto intenso incorniciato da lunghe basette da “mascalzone latino”, capelli
neri come la notte e imbrillantinati, occhi di velluto che una miopia congenita
rendeva sognanti, movenze flessuose e sensuali: perfetto per ruoli da amante e
da bel tenebroso.
E Hollywood non se lo fa scappare.
Nel 1921 appare nei “Quattro cavalieri dell’Apocalisse”: un trionfo. Nasce un
fenomeno, che oggi chiameremmo mediatico, di proporzioni planetarie.
L’ex perito agrario di Castellaneta, che ora si fa chiamare Rudolph Valentino,
diventa il prototipo del latin lover: le donne lo agognano e affollano i cinema
dove si proiettano i suoi film, gli uomini lo imitano, e allora è un tripudio
di ghette bianche e di capelli impomatati, torbidi sguardi e, per chi può, di
limousine con l’emblema del cobra sul cofano come la sua.
Ma nessuno è come lui: unico, inimitabile, irripetibile.
L’ascesa è repentina, il successo clamoroso: “Lo sceicco”,
“Sangue e arena”, “Il giovane rajah”, “L’aquila” e “Il figlio dello sceicco”
(uscito postumo): questi i titoli di alcuni suoi film che riscuotono un
successo grandioso, proiettandolo nell’Olimpo del Cinema in cui diventa “il Dio
assoluto del Muto”.
I personaggi che interpreta sono sempre esotici, ad alto tasso seduttivo ed
erotico e lui stesso è un dandy elegantissimo, amante delle notti folli, del
lusso e dei piaceri.
Influenza mode e modi: adotta l’orologio da polso, allora appannaggio solo
delle donne (gli uomini usavano quello da taschino) e allora Cartier gli chiede
di indossare il suo celebre Tank, ispirato ai carri armati della Prima Guerra
mondiale (la forma della cassa evoca la cabina di pilotaggio).
Lui se ne innamora così tanto che s’impunta a volerlo portare persino nelle
scene del suo film “Il figlio dello sceicco”, incurante dell’imbarazzante
incongruenza e con buona pace della produzione che dovette piegarsi ai capricci
di un Divo.
Nel 1925 torna in Italia per una vacanza e chiede di essere
ricevuto dall’allora capo del Governo Benito Mussolini, ma questi non lo
accoglie: è piccato con lui perché il Divo aveva chiesto la naturalizzazione
americana e ciò era stato percepito come un affronto alla Madre Patria.
Per questo, mentre nel resto del mondo i suoi film erano osannati, in Italia
erano boicottati.
C’è chi parlò all’epoca di censura mussoliniana perché lui non rispettava i
canoni del maschio del tempo: troppo dandy, troppo effeminato, troppo
ricercato, troppo gentile.
In effetti Rudolph/Rodolfo si truccava gli occhi, curava i
dettagli del vestire con una ricercatezza allora ascritta soprattutto alle
donne, portava braccialetti a forma di serpente, e poi era così maledettamente
seduttivo!
Le donne, negli States, erano pazze di lui molto più che degli attori nostrani
e questo in America, unitamente al fatto che lui non appartenesse alla “casta”
dei WASP (acronimo di White Anglo-Saxon Protestant) ed essendo Italiano,
Cattolico e pure di pelle scura, dava fastidio, molto fastidio alla Upper
Class.
La stampa statunitense quindi comincia a prenderlo di mira e gli riserva
critiche beffarde e velenose.
E addirittura un cronista del “Chicago Tribune” lo appella malignamente
“piumino rosa da cipria”, alludendo alla sua (presunta) omosessualità.
Più che presunta, però, sono in molti a ritenerla conclamata (si parlò di
relazioni con gli attori Norman Kerry e Ramon Novarro e con lo sceneggiatore
André Daven), seppure ben occultata per non intaccare la sua fama di
irresistibile tombeur de femmes.
In una biografia molto pruriginosa dal titolo A dream of
desire, David Bret sostiene che Valentino era «gay per inclinazione
naturale e bisessuale per convenienza finanziaria» e che arrivato a New York
fosse stato assoldato come giardiniere dal miliardario Cornelius Bliss
divenendone presto l’amante.
E sono le sue due mogli a dare man forte alla tesi di un Rodolfo Valentino
attratto da giovanotti muscolosi, sbandierando apertamente la mancanza di
ardori erotici del loro bellissimo marito nei propri confronti.
La prima, Jean Acker, un’attricetta-ballerina di poco talento e di molta boria,
lo piantò dopo appena un mese di matrimonio, lamentandosi in interviste
rilasciate e destra e a manca che le loro notti erano state tutte
maledettamente bianche
In realtà era lei ad essere una seguace di Saffo, e quindi totalmente
disinteressata agli uomini, oltre che amante della famosa e gelosissima attrice
Alla Nazimova.
Ma fu la seconda moglie, la perfida, stravagante ed
insopportabile Natascia Rambova (che si fingeva russa e invece era nata a Salt
Lake City e all’anagrafe si chiamava Winifred Kimball Shaughnessy) a dargli il
colpo mortale e a screditarlo di fronte al mondo intero.
Lui era completamente succube di questa artista poliedrica (danzatrice,
scenografa, costumista e sceneggiatrice) e donna dalla personalità forte e
magnetica che lo devastò sia economicamente che psicologicamente.
Capricciosa ed esigentissima, lo dissanguò (nonostante fosse ricchissima di
suo) con le sue sfavillanti pretese. E allora furono costosi cani alsaziani e
purosangue arabi, yacht e 6 lussuose automobili, gioielli da sogno e abiti
magnificenti.
Valentino si indebitò per lei di una cifra colossale: centomila dollari degli
anni Venti.
Rissosa e prepotente, gli fece terra bruciata attorno, litigando con
produttori, costumisti, registi e truccatori e riducendo il suo celebre marito
ad un fantoccio tra le sue mani e a zimbello di Hollywood.
Ma lui era perso di lei e arrivò persino a dichiarare: «Io non sono solo un
uomo innamorato: sono lo schiavo di mia moglie. E per lei affronterei non
soltanto la galera, ma anche la morte.»
E in galera “Rudy” (come ora familiarmente era chiamato) ci andò davvero perché
sposando la Rambova fu accusato di bigamia in quanto il precedente divorzio
dalla Acker non era stato ancora registrato e convalidato.
Lei, la crudele Natascia, lo lascerà dopo quattro anni di matrimonio che altro
non fu che un gioco al massacro fra una carnefice snob e glaciale e una vittima
dolce e ammansita.
E non contenta di averlo rovinato finanziariamente e di avergli spezzato il
cuore, lo umiliò davanti al mondo definendolo «un impotente, una cocotte
imbellettata», omettendo che anche a lei, come la precedente sua moglie,
interessavano più le donne che gli uomini.
Rodolfo Valentino non si riprese mai dal dolore e cercò conforto
tra le braccia di una Diva dell’epoca, la bellissima attrice polacca Pola
Negri, ma il destino stava per giocargli un tiro mancino.
E in un caldo giorno d’Agosto di quell’anno infausto, il 1926, l’attore viene
ricoverato urgentemente al Polyclinic Hospital di New York per un grave malore
causato da ulcera gastrica e infiammazione all’appendicite sfociata presto in
peritonite.
Lo operarono d’urgenza; si risveglia, guarda verso la finestra e dice: «Non tirate giù le
tendine. Mi sento bene. Voglio sentire la luce del sole».
Muore il 23 Agosto a 31 anni lasciando il mondo del Cinema sconvolto e le sue fan disperate.
Una sorta di isteria collettiva s’impadronisce allora di New
York nel giorno dei suoi funerali tanto che si scomoda persino uno scrittore come
Dos Passos che in un memorabile articolo intitolato “Tango lento” scrisse:
«Mentre egli giaceva solennemente in una bara coperto di un drappo d’oro,
decine di migliaia di uomini, di donne e di bambini gremivano le vie
all’esterno (…) uomini e donne lottavano per un fiore, un brandello di
tappezzeria, un frammento del vetro rotto della finestra.»
Centomila persone partecipanti, un centinaio di feriti, 6 bimbi dispersi, 28
scarpe scompagnate e tre arresti fecero da cornice ad un funerale che si era
trasformato presto in una baraonda morbosa e disdicevole: mentre un biplano
lasciava cadere una pioggia di petali di fiori, centinaia di venditori
ambulanti accorsero per vendere (a caro prezzo) sue foto di scena, ma anche
hamburger e ombrelli, centinaia di ragazzini schiamazzanti s’arrampicarono
sugli alberi per vedere il passaggio del feretro, si assistette ad urla e
spintoni della folla, e persino a qualche tafferuglio ricomposto dagli agenti a
suon di manganelli.
E scene simili accaddero anche nell’altro funerale organizzato a Los Angeles.
In entrambi la bara dovette essere ricoperta da una lastra di
vetro per proteggere la salma, lastra che doveva essere pulita ogni quarto
d’ora dalle lacrime, dalle impronte delle mani e dal rossetto dei baci lasciati
dalle donne. Una donna a Londra si suicidò e la ritrovarono sul letto
circondata da ritagli di giornali di Rudy, a Parigi un fattorino del Ritz fu
trovato morto con in mano una sua foto con dedica.
Ad accompagnarlo al Memorial Park Cemetery di Los Angeles il Gotha del Cinema
di allora: Charlie Chaplin, vestito a lutto e con il volto tirato, Gloria
Swanson, Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Pola Negri, sua ultima amante, che
svenne tre volte, guadagnandosi il giorno dopo le prime pagine dei giornali.
“Le vedove di Rudy” che si presentarono ai funerali in gramaglie non si
contarono e ben 65 dichiararono ai giornali di aspettare un figlio da lui.
Tutti notarono la grande assente: Natascia Rambova, la moglie
crudele e tanto amata.
Ma per anni una misteriosa donna completamente vestita di nero e dal volto
velato, portò corbeilles di rose rosse sulla sua tomba.
E molti giurarono fosse lei, finalmente pentita, finalmente affranta.
Daniela Musini