ovidio news
L’inutile e tragica inconsistenza dell’essere L’inutile e tragica inconsistenza dell’essere
Se ci basassimo sulla reale misura delle cose saremmo persone migliori. Invece ci crogioliamo su dettagli insignificanti, di breve durata e non reali, irrazionali,... L’inutile e tragica inconsistenza dell’essere

Se ci basassimo sulla reale misura delle cose saremmo persone migliori. Invece ci crogioliamo su dettagli insignificanti, di breve durata e non reali, irrazionali, perché riteniamo la nostra vita una sopravvivenza, non una possibilità; un lento divenire, un’improbabile vittoria. Questo perché siamo atei nel profondo del cuore: non perché non abbiamo fede in qualche entità divina e soprannaturale, ma perché siamo deboli; e siccome riteniamo la forza come l’unica possibilità di emergere, sopraffare e vincere, non ci crediamo all’eternità. Troppa cosa per noi. Il dubbio ci perseguita, come la depressione, un senso di vuoto enorme capace di non farci esistere, la paura dell’ignoto. Elementi positivi come la capacità d’amare divengono dolore e la comprensione di Essere ci trasforma in mostri, ci ammala.

Dovremmo essere spavaldi, coraggiosi, insaziabili, furenti. Ci siamo convinti di non essere nulla in un’epoca, d’altronde, che ci suggerisce come non mai, l’indifferenza di tutto il genere animale nell’eventualità della nostra scomparsa. Siamo l’unica vera anomalia di tutta l’esistenza. Ci siamo fermati un attimo e il pianeta è migliorato sensibilmente: clima, paesaggio, colori, depurazione. Peggiorano invece le false chimere: le globalizzazioni, la società, il lavoro; cose utili soltanto a quei pochi che ci speculano.

Se immaginassimo la storia del nostro pianeta rappresentata su un orologio, l’umanità apparirebbe nell’ultimo secondo prima della mezzanotte e la mezzanotte è la fine del mondo. Potremmo dilatare quel secondo solamente dedicandoci all’universo, ai suoi segreti, alle sue possibilità, che tendono, come la sua grandezza, all’infinito. Questo è l’esempio che dovremmo seguire: tendere. L’eternità dell’uomo sta nella tensione, non nella durata della sua vita. Invece qui facciamo cadere un muro e pensiamo di aver cambiato le cose. Ed è enorme quello che non riusciamo a cambiare, come se, costretti in una cella buia ci illudessimo di poter significare qualcosa. E’ più grave l’estinzione di una specie animale che la scomparsa di un miliardo di umani, ma noi non lo capiamo. Ciechi proseguiamo su una rotta senza meta incapaci di evolverci: ci facciamo in quattro e non sappiamo perché. Sudiamo, uccidiamo, spacchiamo e rumoreggiamo dentro ad una cella blindata.

In questi giorni ci stiamo chiedendo se esiste una possibilità di uscire da questa cella blindata. Pensiamo sia un fatto di operare una scelta piuttosto che un’altra. Non è così. Salviamo delle vite e ci commuoviamo come fossimo eroi che ficcano una bandiera sopra all’arduo colle conquistato. Ma quando mai! Siamo pulcini bagnati sull’orlo del tritacarne destinati a divenire scadenti hamburger di pollo. Parole come Italia, Europa, economia, rinascita, sono tutte vuote se poi non c’è una reale volontà di creare benessere, ma solo schiavitù: bisogna distruggere le strutture effimere (vederle e capirle per quello che sono) sui cui è poggiato il mondo virtuale delle speculazioni e dobbiamo farlo con ogni mezzo o la cella rimarrà chiusa e moriremo senza nemmeno averci provato. Senza tensione. E meglio scomparire piuttosto che portare avanti questa inutile e tragica inconsistenza dell’essere.

Ora: qualcuno ci sta provando. Ma non serve fare e basta, bisogna essere consapevoli di quello che si fa e perché lo si fa, ed indirizzare le nostre fatiche ad un’idea di mondo diversa da quella che ci sta massacrando: io voglio si riconvertire la mia fabbrica, nel momento del bisogno, con tutte le mie forze, ma dopo non mi rimetto a fare lo schiavo per un’industria che mi affama! Vorrò pretendere che le stoffe che ho prodotto, non andranno a costituire un’economia fittizia, dove servirò soltanto a fare bilancio negativo per il debito pubblico, voluto, irrisolvibile, e che resterà tale. E non vorrò più assistere alla distruzione di un’intera economia, allo schioccare di dita, con un “semplice” cambio di moneta. Ridiamo il giusto valore alle cose e a quello che produce un paese: se io produco arte e beni di qualità, non mi puoi equiparare ad uno che produce ferro solo perché un’economia ha deciso che il ferro vale di più! Voglio avere pieno titolo su un mercato e uguale diritto, se ci deve stare un mercato comune, altrimenti me lo faccio a casa mia, coi miei soldi stampati, e le mie elevate peculiarità che dovranno valere il prezzo che decido io.

Almeno prima il “barbaro” se lo doveva fare davvero il mazzo per venire a conquistare Roma!

otrel